venerdì 31 ottobre 2008

L'orrore nella notte

Questa breve storia è liberamente ispirata all'opera di H.P.Lovecraft e ai suoi racconti dell'incubo.

Scrivo dalla mia piccola stanza bianca: sono seduto sul mio letto, le braccia strette al corpo da bende elastiche e la penna trattenuta a stento fra le dita tremanti . Fuori dalla porta imbottita d'acciaio bianche figure si muovono silenziosamente e sono certo che si prendono cura di me. Ma io so che un orrore indescrivibile e strisciante si aggira fra le vie di questa città e che nessuno potrà salvare la mia anima da forme di vita che noi esseri umani neppure riusciamo a immaginare e che vengono a noi da tempi remoti in cui questo mondo era governato da entità oscene a antichissime e che sono ancora fra di noi, e fra di noi si muovono invisibili per adempiere a un disegno a noi ignoto e imperscrutabile.

Per questo scrivo la mia storia: perché spero che queste mie righe possano aprire gli occhi dell'Umanità e che qualcuno, prestissimo, si renda conto che è necessario agire se si vuole salvare la nostra specie da orrori inimmaginabili. Ma bisogna fare presto e i Paesi e le Nazioni devono sapere e prendere subito decisioni improrogabili. Altrimenti sarà la fine e neppure Dio, ma esiste davvero Dio?, potrà salvare queste sue fragili creature da una dannazione eterna e orribile: loro si stanno muovendo e vogliono succhiare il nostro corpo e la nostra anima.

Era da qualche tempo, ormai, che alla mattina mi succedeva di svegliarmi con la vaga sensazione di una stanchezza strana, nuova, sottile, mai provata prima e che sembrava essere ogni giorno più presente.
Ricordo che aprivo gli occhi fra le lenzuola ancora umide di sudore e mi colpiva, immediatamente, quel senso di muscoli quasi doloranti che si accompagna solitamente a una breve corsa di città, quando in calzature inadatte e su marciapiedi scivolosi ci si trova costretti, perché in ritardo, a fare brevi corse per riuscire a prendere in tempo un tram di passaggio.
In più, alla sensazione sgradevole di muscoli ogni giorno più irrigiditi, si aggiungeva una prostrazione generale che mi pervadeva l'anima e lo spirito e che mi impediva, fin dall'inizio della giornata, di godere della bella stagione, del sole e del cielo terso di un settembre particolarmente mite.
La sensazione che provavo allora potrebbe essere ben descritta con la parola "svuotamento": era come se le energie vitali delle mie membra e del mio spirito rifluissero da dentro per disperdersi al di fuori del mio corpo, lasciandomi esausto e quasi incapace di porre in essere alcuna attività.

Scorrevano così i primi giorni del mio malessere, con il pensiero teso ad ascoltare i dolori nuovi del mio corpo e i cedimenti dell'animo con il timore, alla sera, di svegliarmi il giorno dopo ancora più dolorante, debole, svuotato e sempre più malinconico. E le mattine si susseguivano, una dopo l'altra, con i muscoli sempre più dolenti e lo spirito che, ogni giorno, si faceva più fiacco.
Preoccupato per le mie nuove e inusuali condizioni fisiche e per l'umore declinante, decisi finalmente di farmi visitare da un mio amico medico il quale, però, ci tenne a rassicurarmi sul fatto che tutto era sicuramente a posto e che il mio corpo non soffriva di nessuna malattia e che questa malinconia che mi opprimeva da qualche tempo e in concomitanza con i dolori delle gambe e delle braccia sarebbe sicuramente svanita nel giro di pochi giorni e che, in definitiva, il mio stato di apprensione estrema non trovava nessuna giustificazione: qualche bella passeggiata nel sole di settembre e la lettura di qualche buon libro mi avrebbero sicuramente guarito e sarei tornato ad affrontare la vita con la stessa serenità dei miei giorni migliori.

Eppure io sentivo e sapevo che qualcosa non andava e che le parole rassicuranti del mio vecchio amico non erano sufficienti a spiegare, razionalmente, il torpore crescente e quella stanchezza innaturale che ormai da due settimane accompagnavano i miei risvegli e rendevano faticose le mie giornate; così faticose, ormai, che fui costretto a chiedere al mio capo ufficio di potere prendere un breve periodo di riposo dal lavoro e cercare così di rimettere in sesto la mia salute sempre più cagionevole.
Ma, nonostante il riposo, succedeva che i miei risvegli diventassero sempre più difficili e sempre più dolorosi: alla sofferenza di gambe e braccia si erano da qualche giorno aggiunti dei piccoli lividi azzurri che comparivano qua e là sugli avambracci, sul petto e sulle gambe; e un diffuso pallore cominciava a manifestarsi sul mio viso smagrito dalla stanchezza; come naturale conseguenza, lo stato del mio umore peggiorava con evidenza di giorno in giorno e mi vidi, piano piano, precipitare in una situazione di estrema spossatezza fisica e mentale che sfiorava, ormai, un cupo sentimento di depressione profonda. Depressione che diventava addirittura disperazione ogni volta che mi guardavo nello specchio: due occhi incavati in orbite nere e profonde, un viso bianco con la pelle tirata sugli zigomi appuntiti, i capelli opachi come sfibrati e indeboliti e il naso che risaltava nel mezzo della faccia come il becco di uno sparviero erano una visione che rendeva ancora più insopportabile la mia condizione.

Fu alla terza settimana di questa crisi a cui non riuscivo a trovare nessuna spiegazione logica che, immerso nella lettura di un libro di medicina che trattava di malattie strane e misteriose, mi imbattei nella storia di un uomo che, cento anni prima, aveva sofferto la mia stessa dolorosa esperienza: per mesi -si leggeva nel libro- questo signore aveva sofferto, al risveglio, di dolori e di stanchezza estremi e, solo dopo un lungo periodo di apprensioni e sofferenze, un famoso medico di Londra, specialista in psichiatria, aveva prima diagnosticato e poi provato che l'uomo semplicemente soffriva di sonnambulismo, ovvero di quella misteriosa propensione che spinge alcuni esseri umani a camminare durante il sonno e a risvegliarsi nel proprio letto, spesso stanchi come dopo lunghe passeggiate, senza ricordare alcunché della propria ignota vita notturna.

Potete sicuramente immaginare la mia contentezza nel rendermi conto che, forse, avevo trovato una spiegazione logica alle mie strane esperienze delle ultime settimane e che, sicuramente, l'origine dei miei disturbi poteva essere un attacco di sonnambulismo: solo così si potevano spiegare i dolori ai muscoli, i lividi forse causati da urti accidentali contro oggetti resi invisibili dal buio notturno, il mio crescente pallore forse provocato dalla stanchezza generale che derivava dalla mia seconda vita notturna fatta di camminate e di chissà quali altre attività a me ignote e un certo senso di estraneità alla mia stessa mente e alla mia stessa anima che talvolta mi faceva pensare con orrore che il corpo e l'anima non fossero più miei, non mi appartenessero più.

Ormai rinfrancato dalla mia scoperta e con l'animo sollevato di chi crede di avere trovato finalmente una via di uscita dalle proprie elucubrazioni nocive e una spiegazione definitiva ai propri disturbi fisici e dello spirito, mi apprestai a mettere in atto un semplice ma definitivo esperimento che avrebbe, senza dubbio alcuno, dimostrato con tutta chiarezza la mia propensione al sonnambulismo e, di conseguenza, mi avrebbe spinto a rivolgermi a qualche specialista che mi avrebbe certamente suggerito una cura al mio disturbo: il semplice esperimento consiteva nello spargere, sul pavimento intorno al mio letto, un sottile strato di farina in modo che se, durante la notte, mi fossi alzato per incamminarmi fuori dalla mia stanza, la mattina successiva avrei potuto facilmente trovare le impronte dei miei piedi sulla farina avendo così la dimostrazione pratica e visibile del mio disturbo notturno.

Fu quindi una sera d'ottobre che misi in pratica il mio intendimento e, dopo essermi seduto sul letto, sparsi a terra qualche manciata di farina stando ben attento a ricoprire il più ampiamente possibile la superficie di pavimento che, dal mio giaciglio, portava alla porta della mia camera: tutto era quindi pronto per sollevare, finalmente, quel velo grigio di cupa disperazione che aveva accompagnato le mie ultime settimane e, con il migliore degli animi, mi addormentai in attesa di un risveglio che avrebbe finalmente dato risposta chiara ai miei dubbi e alquanto alleviato le mie irrazionali paure.

E fu proprio l'indomani mattina, al momento del mio risveglio, che ciò che vidi mi fece sprofondare nel più indicibile degli orrori da cui mai mi riprenderò e che ancora adesso, ogni volta che mi accingo a riposare per qualche breve ora agitata, mi si para davanti alla mente come a ricordarmi che non vi è speranza per me e per la mia anima perduta: ciò che vidi nella farina stesa sul pavimento, infatti, non fu l'impronta dei miei piedi, ma l'impronta di due enormi zampe di un'arpia gigantesca con spaventosi artigli assassini che si dirigevano verso il mio letto indifeso.

1 commento:

Anonimo ha detto...

é un racconto impressionante!!
mi viene in mente: L'arpia è una allegoria della crisi? :D))) hehehe